di
Vincenzino
Ducas Angeli Vaccaro
Il Regno di Napoli nel 1859 non solo era lo
Stato più reputato in Italia per la sua solidità finanziaria, e ne fan prova i
corsi della rendita, ma anche quello che, fra i maggiori in Italia, versava in
migliori condizioni. Scarso il debito; le imposte non gravose e ben
armonizzate; estrema semplicità in tutti i servizi fiscali e nella tesoreria
dello Stato. Rappresentava a tutti gli effetti l’antitesi del Regno dei Savoia,
dove le imposte avevano raggiunto limiti elevatissimi e il regime fiscale si
mostrava corrosa da una serie di sovrapposizioni inventate senza un preciso
criterio. Tale politica economica attuata dal Regno dei franco piemontesi,
innalzò un macro indebitamento, preludio di un sicuro fallimento. La fame e le
malattie imperversavano inarrestabili lungo quella parte della Pianura Padana.
La
Storia attribuisce il merito al Piemonte per essersi resa protagonista nelle
vicende dell’unità italiana, ma riconosce anche che, senza l’Unità d’Italia,
per gli abusi delle spese e dei debiti che aveva contratto con la Francia e per
la guerra di Crimea, per la povertà delle sue risorse, era necessariamente
condannata al fallimento. “La depressione
finanziaria anteriore al 1848 – scrive Nicola Zitara – aggravata fra il ’49 e il ’59 da una enorme quantità di lavori pubblici
improduttivi, aveva determinato una situazione da cui non si poteva uscire se
non in due modi: o con il fallimento, o confondendo le finanze piemontesi a
quelle di un altro Stato più grande e ricco.” Il soleggiato Regno
Napoletano, oltre l’ottimo clima, possedeva anche menti illuminate, le quali
trascendevano da quelle miserande ed offuscate che risiedevano in Piemonte e
nel Lombardo Veneto. Non occorre fare distinzione se fossero giacobine o
conservatrici, ma sicuramente erano imbevute di vasta cultura.1
Rientrando
nel tema in oggetto, è mio desiderio annoverare un personaggio, unico nella sua
genialità, molto poco discusso dalla storia convenzionale unitaria: Luigi de’
Medici di Ottajano, napoletano verace, principe di Ottaviano e di Sarno e da
parte di sua madre Carmela Filomarino, principe della Rocca. Colto, fin dalla
prima giovinezza, cercò di innestare le idee del giacobinismo con l’instaurata
e solida monarchia borbonica. Curioso, girovagò tra le maggiori capitali
europee e nel 1780, rientrato a Napoli, dopo aver conseguito la laurea in
giurisprudenza in quella città, dedicandosi per qualche tempo all’attività
forense. Come era d’uso tra i notabili partenopei, fu il primo ad aprirsi agli “spiriti
illuminati,” evidenziando nell’immediatezza le sue qualità come promesse
politiche per il Regno delle Due Sicilie. Nel 1783, a soli 24 anni, fu nominato
come giudice della Gran Corte della Vicaria, facendosi ben presto ammirare per
la retta amministrazione della giustizia.
Nel
1815 fu nominato Ministro delle Finanze, ruolo che occupò fino alla sua morte
sopraggiunta nel 1830. Accaldato dalle idee di Filangieri e Pagano, non ebbe
mai fiducia nella politica economica reazionaria, prescegliendo quella progressista,
razionale e antifeudale determinando il periodo aureo per il meridione d’Italia.
Fu il de’ Medici il padre della finanza illuminata napoletana. Dopo la Restaurazione
(1815), nel Regno di Napoli le entrate erano poche e grandi e di facile
riscossione. La base di tutto l’ordinamento fiscale era determinata da una
grande ed organizzata imposta fondiaria, cosa che in Piemonte e nel Lombardo Veneto
non si riuscì a fare rendendo impossibile la riscossione. Un sistema fiscale
snello e non logorante. A tal proposito, Vittorio Sacchi, piemontese e senatore
del Regno d’Italia, in un sua reazione al segretario generale delle finanze,
scrive: “Il sistema della percezione
della fondiaria nel Regno di Napoli era il più importante fra le risorse di
quello Stato ed incontrastabilmente il più spedito, semplice e sicuro che si
avesse in Italia. Lo Stato senza avervi quella minuziosa ingerenza, che vi ha
in Francia e nelle antiche Provincie, ove si fece perfino intervenire il potere
legislativo nella spedizione degli avvisi di pagamento, aveva assicurato a
periodi fissi e ben determinati l’incasso del tributo, colle più solide
garanzie contro ogni malversazione per parte dei contabili.”2
La
convinzione che solo una politica tesa a ad ostacolare le ancora persistenti
tracce del feudalesimo e incoraggiatrice della creazione della ricchezza mobiliare
soprattutto tra i ceti medi, poteva essere utilitaria per lo sviluppo economico
del Regno. Infatti non vi erano imposizioni fiscali sulle ricchezze mobiliari:
si ritenne opportuno non speculare su di esse, poiché allora si stavano
formando. Le tasse sul registro e sul bollo erano assai tenue nel Regno di
Napoli e gravissime in Piemonte. L’ordinamento delle fedi di credito del Banco
di Napoli mirabilmente semplici sotto questo aspetto. Ebbe a scrivere ancora il
senatore piemontese Sacchi: “Lo
straordinario organismo finanziario delle Provincie Napoletane si notava
soprattutto in quanto riguardava il funzionamento del Banco.”3
Il
popolo ne era riconoscente e le masse popolari delle Due Sicilie, da Ferdinando
IV in qua, tutte le volte che hanno dovuto scegliere tra la monarchia napoletana
e quella straniera, tra i re e i liberali, sono state sempre per il re: il ’99,
il ’48, e il ’60, le classi popolari, anche se mal guidate o fatte servire per
scopi nefandi, sono state per la monarchia e per il re. Questo concetto
popolare non è, come vogliono far sembrare, effetto del caso o dell’ignoranza,
ma ben altro e storicamente giustificabile.
Vero
è che i Borbone temevano le classi medie e le avversavano, ma si prodigavano
anche ad assicurare la maggiore prosperità possibile al popolo. Nella loro
gretta e patriarcale concezione loro maggiore preoccupazione era quella di contentare
il popolo non calcolando le eventuali conseguenze. E’ necessario leggere le
istruzioni che inviavano agli intendenti provinciali, ai commissari demaniali,
agli agenti del fisco per capire l’interessamento che nutrivano in favore delle
classi popolari. “Leggendo quei rapporti,
quelle lettere, quelle circolari” –scrive Zitara – si è spesso vinti dal quel caldo senso di simpatia popolare che
traspira da ogni frase.”4
Fra
il 1848 e il 1860 si cercò di economizzare su tutto pur di non applicare nuove
imposte, evitando principalmente tasse sui beni di consumo. Francesco Saverio
Nitti ha calcolato che nel 1860 le entrate del regno delle Due Sicilie
raggiunsero la somma di 175 milioni di lire. Nell’anno precedente le entrate
del Regno dei Savoia, che aveva meno della metà della popolazione di quello dei
Borbone, furono di 144 milioni di lire. E facilissimo immaginare quanto diversa
fosse la pressione dei tributi tra i due stati.5
In
seguito all’unificazione dell’Italia di conseguenza ci fu anche quella del
sistema fiscale che risultò essere immediatamente traumatico per le popolazioni
meridionali. In una economia come quella del regno delle Due Sicilie dove
prevalente era la produzione per il consumo diretto e l’introduzione di una
forte imposizione si tradusse in una violenta trasformazione dei rapporti di
produzione. I proprietari i meridionali, percossi dalla violenta ed inusitata
tassazione, imposero la totale conversione in rendita monetaria dei canoni
percepiti prevalentemente in natura e per rifarsi degli esborsi aumentarono i
canoni. D’altro canto, i contadini per far fronte alle nuove pretese, furono
costretti a dirottare la loro produzione dai prodotti richiesti dai bisogni
familiari ai prodotti domandati dal mercato, dove soltanto era possibile
convertirli nel denaro utile per pagare gli esosi canoni. Tutto ciò sconvolse
non solo gli orientamenti produttivi, ma anche l’economia esistenziale. Essendo
gente che viveva di prodotti agricoli, consumatori direttamente, le gravezze
sopravvenute han tolto loro una parte del nutrimento quotidiano.6 L’impoverimento
delle classi contadine e la conseguente fuga dalle campagne, non sfociò in un
reimpiego della manodopera agricola ormai disoccupata nelle produzioni
industriali, e quindi nell’urbanizzazione delle produzioni meridionali, ma nell’emigrazione
di massa. Stava sviluppandosi infatti quella rigida divisione nazionale del
lavoro tra Sud e Nord, che può ritenersi la conclusione politica del moto
risorgimentale e contemporaneamente la matrice della colonizzazione del
Mezzogiorno.
Situazione
della circolazione monetaria presentata da Nitti all’indomani dell’unificazione:
Monete
metalliche degli antichi stati italiani ritirate dalla circolazione
Regno delle Due Sicilie 443 milioni
di lire;
Roma e Stato Pontificio 90,7 milioni
di lire;
Granducato di Toscana 85,3 milioni di
lire;
Regno di Sardegna 27,1 milioni di
lire;
Venezia 12,8 milioni di lire;
Lombardia 8,1 milioni di lire;
Parma e Modena 1,7 milioni di lire.
Fonti:
1 Nicola
Zitara, L’unità d’Italia, nascita di una colonia, in Quaderni Calabresi –
Quaderni del Mezzogiorno e delle Isole, 57. Ottobre – Novembre 1984. Ed
Quaderni Calabresi, p. 40-41.
2 V.
Sacchi, Il Segretariato Generale delle Finanze di Napoli dal 1 aprile al 31
ottobre del 1861. Napoli, Stabilimento Tipografico delle Belle Arti, 1861 p. 42.
3 V.
Sacchi, cit. pag. 46.
4 N.
Zitara, cit. p.44.
5 F.S.
Nitti, Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1897 con scritti sulla questione
meridionale,Laterza Bari 1958, p.p. 37-44.
6
A. Branca, Atti della giunta per l’inchiesta agraria e sulla condizione della classe
agricola, vol. IX, fasc. 1. Relazione sulla seconda Circoscrizione (Provincia
di Potenza, Cosenza, Catanzaro e Reggio Calabria), Roma 1883, p. 12.