venerdì 18 dicembre 2020

 




IL RACCONTO DEGLI ULTIMI GIORNI A NAPOLI DI FRANCESCO II, IL RE SULLA VIA DELLA BEATIFICAZIOE *

Michele Eugenio Di Carlo
 
Su Francesco II, l’ultimo re di Napoli, si aprono le vie della beatificazione. É una notizia che non mi sorprende, avendo passato gli ultimi anni a studiare attentamente la storia della fine del Regno delle Due Sicilie e, naturalmente, le vite dei protagonisti centrali di questo periodo storico tra i quali spiccano inevitabilmente Ferdinando II e il figlio Francesco II.
Ai fini del processo di beatificazione di Francesco II, sicuramente non risulterà irrilevante il modo in cui si congedò dalla sua Napoli, cercando di affrancarla dalla guerra e dalla distruzione, lasciando nei forti migliaia di soldati non per difendere la dinastia dei Borbone, ma affinché il passaggio di consegna a Garibaldi avvenisse nella serenità più assoluta, senza scontri e senza vittime.
Eccovi il racconto degli ultimi giorni di Francesco a Napoli, tratto dal mio recente testo “Sud da Borbone a brigante”.
Nemmeno un anno dopo essere salito al trono, dopo infinite traversie, Francesco II vedeva il proprio Regno invaso militarmente a tradimento da Giuseppe Garibaldi con un’impresa sostenuta segretamente da inglesi e sabaudi, in palese violazione del diritto internazionale.
La mattina del 3 settembre del 1860, assolutamente cosciente di essere circondato da traditori a cui aveva concesso spazi enormi, Francesco II prese la sofferta decisione di lasciare Napoli e di arretrare la linea difensiva contro l’avanzata garibaldina tra le fortezze di Gaeta e di Capua, nell’area compresa tra il Volturno e il Garigliano.
Secondo lo scrittore Raffaele De Cesare, il Re aveva seguito i consigli dell’Austria e del comandante dell’Esercito pontificio Louis Juchault de Lamorcière[1], ma erano in tanti ad aver sconsigliato Francesco II di mettersi al comando delle truppe lungo la linea difensiva tra Salerno ed Eboli.
Secondo altri, Francesco II non avrebbe dovuto lasciare Napoli, ma combattere e magari morire. Non avrebbe dovuto dar conto alla stampa filo-unitaria a cui aveva concesso una libertà mal ripagata, né al vociare di esuli cavourriani e mazziniani a cui aveva concesso l’amnistia, né ai suoi ministri costituzionali al potere contro la sua stessa dinastia reale. Francesco II avrebbe invece dovuto alzare lo sguardo «nelle cose dei cittadini, nelle capanne de’ contadini, nelle tende de’ soldati», per ascoltare con commozione i «singhiozzi di milioni di sudditi, spaventati dalla imminente ruina infinita». Secondo questa tesi Francesco II avrebbe dovuto ripercorrere all’inverso i passi compiuti fino al 24 giugno: sospendere la Costituzione, proclamare lo stato d’assedio, bloccare la stampa cavourriana e mazziniana, espellere stranieri e esuli, mandare sotto processo i ministri infedeli, giudicare gli ufficiali dell’Esercito e della Marina che avevano provocato le sconfitte, eliminare i camorristi infiltrati dai suoi nemici nel corpo di Polizia, ripristinare le guardie urbane, riavvicinare i tanti fedeli sudditi allontanati dalle amministrazioni centrali e periferiche. Era questo l’unico metodo per respingere i nemici interni ed esterni e salvare con la dinastia il Sud dall’invasione in atto e dalla colonizzazione che ne sarebbe derivata.
Ma Francesco II era pur sempre il «figlio della Santa» (la madre, Maria Cristina, sarà beatificata nel 2014): più che il suo regno in terra, sperava in un piccolo e modesto posto in quello dei cieli.
Alle quattro di pomeriggio del 5 dicembre, Francesco II comunicava al Consiglio di Stato la sua decisione di lasciare Napoli per Gaeta, chiedendo al ministro degli Esteri Giacomo De Martino di preparare una lettera di protesta indirizzata alle Potenze europee.
L’ambasciatore inglese Henry Elliot, pur essendo un acerrimo nemico della dinastia dei Borbone, oltre che uomo di fiducia dei ministri John Russel e lord Henry John Temple di Palmerston che avevano avuto un ruolo determinante nella fine del Regno delle Due Sicilie, rimase colpito, al pari del collega francese Anatole Brenier e degli stessi ministri costituzionali del governo napoletano che stavano tradendo il loro mandato e la patria, della pacatezza, della compostezza, della risolutezza con la quale, «salvando la Corona» e Napoli dalla distruzione, Francesco II subiva le più gravi umiliazioni personali.
Tanto che quel giorno stesso la voce di Elliot sembrò levarsi a difesa di Francesco II e contro i traditori di Corte e gli stessi liberali: «È impossibile descrivere l’odiosa esibizione di piccineria, ingratitudine, vigliaccheria e d’ogni altra infima qualità che è stata fatta in questi ultimi giorni»[ii].
Come scritto nel Proclama Reale, Francesco II lasciava in città parte delle forze militari, circa 6 mila uomini con il compito non di difendere la dinastia, ma di proteggere l’incolumità di Napoli.
Giovedì 6 settembre, una splendida giornata di fine estate, nelle prime ore del pomeriggio il Re riceveva il saluto dei ministri e dei direttori rivolgendosi loro in maniera cortese, come d’abitudine.
Francesco II lasciava Napoli senza neppure prelevare i suoi beni personali che finirono nelle mani untuose della nuova autorità e che non gli verranno mai restituiti.
Anche gli ambasciatori stranieri si presentarono a salutare il Re in partenza, persino Brenier ed Elliot, non il piemontese Salvatore Pes di Villamarina. D’altronde, De Martino aveva poco prima inoltrato l’atto di protesta nel quale il Piemonte veniva ritenuto il principale responsabile dell’invasione del Regno; un atto che terminava con l’impegno di difendere il Regno fuori le mura della Capitale e con parole solenni: «forti sui nostri dritti fondati sulla storia, sui patti internazionali e sul diritto pubblico europeo», la protesta si estendeva «contro tutti gli atti finora consumati» e con la ferma volontà di conservarla alla storia «come un monumento di opporre sempre la ragione e il dritto alla violenza e all’usurpazione»[iii].
Tranne Brenier ed Elliot, e naturalmente Villamarina, gli ambasciatori ricevettero disposizioni di trasferire a Gaeta gli uffici diplomatici. La Spagna dispose affinché Francesco II fosse scortato con due navi spagnole.
Elliot non rinunciò a criticare apertamente il comportamento assunto da Vittorio Emanuele II e da Napoleone III, durante l’avanzata garibaldina sul suolo napoletano[iv]. Nelle frasi di Elliot apparve evidente l’ammissione che la stessa propaganda, servita ad infangare i Borbone, era stata del tutto strumentale al fine di isolare una dinastia reale che si era rifiutata di sottostare alla forza delle Potenze dominanti dell’epoca.
In perfetto orario, alle diciotto, il Messaggero, scortato da due navi spagnole, salpava dal porto di Napoli. Come profetizzato dal vecchio generale Raffaele Carrascosa, Francesco II non sarebbe mai più tornato a Napoli. La flotta napoletana, già abbondantemente compromessa con l’ammiraglio Carlo Pellion di Persano e l’ambasciatore piemontese Villamarina, si rifiutava di seguire il proprio re, ad eccezione della Partenope che raggiungeva Gaeta.
Con l’uscita da Napoli di Francesco II finiva il Regno delle Due Sicilie; tra Capua e Gaeta iniziava una lunga e coraggiosa lotta che avrebbe restituito l’onore perduto in Sicilia e in Calabria all’Esercito Reale e alla dinastia borbonica.
Il processo di beatificazione di Francesco II finalmente toglierà il velo oscuro sulla vera storia del nostro processo di unificazione, che può essere declinato proprio con le parole dell’ultimo re delle Due Sicilie, aventi il significato profondo «… di opporre sempre la ragione e il dritto alla violenza e all’usurpazione».
*Tratto dal testo “Sud da Borbone a brigante” di Michele Eugenio Di Carlo
[1] R. DE CESARE (Memor), La fine di un Regno: dal 1855 al 6 settembre 1860, cit., p. 460.
[ii] H. ACTON, Gli ultimi borboni di Napoli (1825-1861), cit., pp. 551-552.
[iii] Ivi, pp. 471-472.
[iv] Ivi, pp. 471- 472.

martedì 10 marzo 2020

La politica economica e il genio di de Medici. Il periodo aureo delle Due Sicilie nelle riflessioni di Nicola Zitara






di

Vincenzino Ducas Angeli Vaccaro





 Il Regno di Napoli nel 1859 non solo era lo Stato più reputato in Italia per la sua solidità finanziaria, e ne fan prova i corsi della rendita, ma anche quello che, fra i maggiori in Italia, versava in migliori condizioni. Scarso il debito; le imposte non gravose e ben armonizzate; estrema semplicità in tutti i servizi fiscali e nella tesoreria dello Stato. Rappresentava a tutti gli effetti l’antitesi del Regno dei Savoia, dove le imposte avevano raggiunto limiti elevatissimi e il regime fiscale si mostrava corrosa da una serie di sovrapposizioni inventate senza un preciso criterio. Tale politica economica attuata dal Regno dei franco piemontesi, innalzò un macro indebitamento, preludio di un sicuro fallimento. La fame e le malattie imperversavano inarrestabili lungo quella parte della Pianura Padana.

La Storia attribuisce il merito al Piemonte per essersi resa protagonista nelle vicende dell’unità italiana, ma riconosce anche che, senza l’Unità d’Italia, per gli abusi delle spese e dei debiti che aveva contratto con la Francia e per la guerra di Crimea, per la povertà delle sue risorse, era necessariamente condannata al fallimento. “La depressione finanziaria anteriore al 1848 – scrive Nicola Zitara – aggravata fra il ’49 e il ’59 da una enorme quantità di lavori pubblici improduttivi, aveva determinato una situazione da cui non si poteva uscire se non in due modi: o con il fallimento, o confondendo le finanze piemontesi a quelle di un altro Stato più grande e ricco.” Il soleggiato Regno Napoletano, oltre l’ottimo clima, possedeva anche menti illuminate, le quali trascendevano da quelle miserande ed offuscate che risiedevano in Piemonte e nel Lombardo Veneto. Non occorre fare distinzione se fossero giacobine o conservatrici, ma sicuramente erano imbevute di vasta cultura.1

Rientrando nel tema in oggetto, è mio desiderio annoverare un personaggio, unico nella sua genialità, molto poco discusso dalla storia convenzionale unitaria: Luigi de’ Medici di Ottajano, napoletano verace, principe di Ottaviano e di Sarno e da parte di sua madre Carmela Filomarino, principe della Rocca. Colto, fin dalla prima giovinezza, cercò di innestare le idee del giacobinismo con l’instaurata e solida monarchia borbonica. Curioso, girovagò tra le maggiori capitali europee e nel 1780, rientrato a Napoli, dopo aver conseguito la laurea in giurisprudenza in quella città, dedicandosi per qualche tempo all’attività forense. Come era d’uso tra i notabili partenopei, fu il primo ad aprirsi agli “spiriti illuminati,” evidenziando nell’immediatezza le sue qualità come promesse politiche per il Regno delle Due Sicilie. Nel 1783, a soli 24 anni, fu nominato come giudice della Gran Corte della Vicaria, facendosi ben presto ammirare per la retta amministrazione della giustizia.

Nel 1815 fu nominato Ministro delle Finanze, ruolo che occupò fino alla sua morte sopraggiunta nel 1830. Accaldato dalle idee di Filangieri e Pagano, non ebbe mai fiducia nella politica economica reazionaria, prescegliendo quella progressista, razionale e antifeudale determinando il periodo aureo per il meridione d’Italia. Fu il de’ Medici il padre della finanza illuminata napoletana. Dopo la Restaurazione (1815), nel Regno di Napoli le entrate erano poche e grandi e di facile riscossione. La base di tutto l’ordinamento fiscale era determinata da una grande ed organizzata imposta fondiaria, cosa che in Piemonte e nel Lombardo Veneto non si riuscì a fare rendendo impossibile la riscossione. Un sistema fiscale snello e non logorante. A tal proposito, Vittorio Sacchi, piemontese e senatore del Regno d’Italia, in un sua reazione al segretario generale delle finanze, scrive: “Il sistema della percezione della fondiaria nel Regno di Napoli era il più importante fra le risorse di quello Stato ed incontrastabilmente il più spedito, semplice e sicuro che si avesse in Italia. Lo Stato senza avervi quella minuziosa ingerenza, che vi ha in Francia e nelle antiche Provincie, ove si fece perfino intervenire il potere legislativo nella spedizione degli avvisi di pagamento, aveva assicurato a periodi fissi e ben determinati l’incasso del tributo, colle più solide garanzie contro ogni malversazione per parte dei contabili.”2

La convinzione che solo una politica tesa a ad ostacolare le ancora persistenti tracce del feudalesimo e incoraggiatrice della creazione della ricchezza mobiliare soprattutto tra i ceti medi, poteva essere utilitaria per lo sviluppo economico del Regno. Infatti non vi erano imposizioni fiscali sulle ricchezze mobiliari: si ritenne opportuno non speculare su di esse, poiché allora si stavano formando. Le tasse sul registro e sul bollo erano assai tenue nel Regno di Napoli e gravissime in Piemonte. L’ordinamento delle fedi di credito del Banco di Napoli mirabilmente semplici sotto questo aspetto. Ebbe a scrivere ancora il senatore piemontese Sacchi: “Lo straordinario organismo finanziario delle Provincie Napoletane si notava soprattutto in quanto riguardava il funzionamento del Banco.”3

Il popolo ne era riconoscente e le masse popolari delle Due Sicilie, da Ferdinando IV in qua, tutte le volte che hanno dovuto scegliere tra la monarchia napoletana e quella straniera, tra i re e i liberali, sono state sempre per il re: il ’99, il ’48, e il ’60, le classi popolari, anche se mal guidate o fatte servire per scopi nefandi, sono state per la monarchia e per il re. Questo concetto popolare non è, come vogliono far sembrare, effetto del caso o dell’ignoranza, ma ben altro e storicamente giustificabile.

Vero è che i Borbone temevano le classi medie e le avversavano, ma si prodigavano anche ad assicurare la maggiore prosperità possibile al popolo. Nella loro gretta e patriarcale concezione loro maggiore preoccupazione era quella di contentare il popolo non calcolando le eventuali conseguenze. E’ necessario leggere le istruzioni che inviavano agli intendenti provinciali, ai commissari demaniali, agli agenti del fisco per capire l’interessamento che nutrivano in favore delle classi popolari. “Leggendo quei rapporti, quelle lettere, quelle circolari” –scrive Zitara – si è spesso vinti dal quel caldo senso di simpatia popolare che traspira da ogni frase.”4

Fra il 1848 e il 1860 si cercò di economizzare su tutto pur di non applicare nuove imposte, evitando principalmente tasse sui beni di consumo. Francesco Saverio Nitti ha calcolato che nel 1860 le entrate del regno delle Due Sicilie raggiunsero la somma di 175 milioni di lire. Nell’anno precedente le entrate del Regno dei Savoia, che aveva meno della metà della popolazione di quello dei Borbone, furono di 144 milioni di lire. E facilissimo immaginare quanto diversa fosse la pressione dei tributi tra i due stati.5

In seguito all’unificazione dell’Italia di conseguenza ci fu anche quella del sistema fiscale che risultò essere immediatamente traumatico per le popolazioni meridionali. In una economia come quella del regno delle Due Sicilie dove prevalente era la produzione per il consumo diretto e l’introduzione di una forte imposizione si tradusse in una violenta trasformazione dei rapporti di produzione. I proprietari i meridionali, percossi dalla violenta ed inusitata tassazione, imposero la totale conversione in rendita monetaria dei canoni percepiti prevalentemente in natura e per rifarsi degli esborsi aumentarono i canoni. D’altro canto, i contadini per far fronte alle nuove pretese, furono costretti a dirottare la loro produzione dai prodotti richiesti dai bisogni familiari ai prodotti domandati dal mercato, dove soltanto era possibile convertirli nel denaro utile per pagare gli esosi canoni. Tutto ciò sconvolse non solo gli orientamenti produttivi, ma anche l’economia esistenziale. Essendo gente che viveva di prodotti agricoli, consumatori direttamente, le gravezze sopravvenute han tolto loro una parte del nutrimento quotidiano.6 L’impoverimento delle classi contadine e la conseguente fuga dalle campagne, non sfociò in un reimpiego della manodopera agricola ormai disoccupata nelle produzioni industriali, e quindi nell’urbanizzazione delle produzioni meridionali, ma nell’emigrazione di massa. Stava sviluppandosi infatti quella rigida divisione nazionale del lavoro tra Sud e Nord, che può ritenersi la conclusione politica del moto risorgimentale e contemporaneamente la matrice della colonizzazione del Mezzogiorno.

Situazione della circolazione monetaria presentata da Nitti all’indomani dell’unificazione:

Monete metalliche degli antichi stati italiani ritirate dalla circolazione

Regno delle Due Sicilie 443 milioni di lire;

Roma e Stato Pontificio 90,7 milioni di lire;

Granducato di Toscana 85,3 milioni di lire;

Regno di Sardegna 27,1 milioni di lire;

Venezia 12,8 milioni di lire;

Lombardia 8,1 milioni di lire;

Parma e Modena 1,7 milioni di lire.

Fonti:

1 Nicola Zitara, L’unità d’Italia, nascita di una colonia, in Quaderni Calabresi – Quaderni del Mezzogiorno e delle Isole, 57. Ottobre – Novembre 1984. Ed Quaderni Calabresi, p. 40-41.

2 V. Sacchi, Il Segretariato Generale delle Finanze di Napoli dal 1 aprile al 31 ottobre del 1861. Napoli, Stabilimento Tipografico delle Belle Arti, 1861 p. 42.

3 V. Sacchi, cit. pag. 46.

4 N. Zitara, cit. p.44.

5 F.S. Nitti, Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1897 con scritti sulla questione meridionale,Laterza Bari 1958, p.p. 37-44.

6 A. Branca, Atti della giunta per l’inchiesta agraria e sulla condizione della classe agricola, vol. IX, fasc. 1. Relazione sulla seconda Circoscrizione (Provincia di Potenza, Cosenza, Catanzaro e Reggio Calabria), Roma 1883, p. 12.








La Sanità nel periodo borbonico

Risultato immagini per foto sanità pubblica regno di napoliLa Sanità nel periodo borbonico

I concetti di Sanità Pubblica, Pubblica Assistenza e Sicurezza Sanitaria, così come oggi intesi sono di una lenta armonizzazione e di un progressivo ampliamento delle conoscenze, acquisite nel corso di secoli di sperimentazioni, volti al miglioramento delle condizioni di vita dei popoli. Volendo analizzarne l'evoluzione, appare chiaro che fino al XVIII secolo circa, il concetto di "assistenza" in ambito sanitario è strettamente legato a quello di "carità", con gli Ospedali e le Opere Pie che cercano di porre rimedio alle mancanze dei governi.
Tuttavia "bisogna ricordare che la non visibilità, la non palpabilità e la non sensibilità di una cosa non sono per questo prove assolute della sua non esistenza" (Amadou Hampaté Ba), se dunque i Governi non sembrano, fino a quest'epoca, interessati a garantire la pubblica salute, vero è che non mancano esempi di provvedimenti governativi volti, ad esempio, ad arginare la diffusione di epidemie (controllo di merci, quarantene, ecc). Quello che sembra mancare, al di là dei provvedimenti dettati da particolari condizioni, è piuttosto la presenza di una forte rete assistenziale professionale (dunque garantita da medici, non da frati), almeno fino ai primi decenni del XIX secolo.
Analizzando l'organizzazione della sanità pubblica nei vari Stati preunitari, appare evidente come alcuni di questi (Stato Pontificio, Regno delle Due Sicilie) avevano una rete capillare di controllo e assistenza in ambito sanitario, ben superiore ad altri (Regno di Sardegna, Lombardo-Veneto), le cui attenzioni erano evidentemente rivolte altrove. Venendo a noi, il primo documento pervenuto riguardante provvedimenti di Sanità Pubblica nel Regno delle Due Sicilie risale al 1749, allorchè il Senato di Palermo pubblica uno studio sull'epidemia di peste che nel 1743 aveva colpito la città di Messina e propone eventuali misure di protezione e lìistituzione di cordoni sanitari portuali. La tragicità degli eventi spinge infatti gli organi preposti alla sicurezza sanitaria ad investigare sulle possibili misure da adottare per scongiurare, in futuro, eventi di sì vasta portataGli studi della Commissione saranno ripresi nel 1751 e porteranno alla pubblicazione di una Prammatica di Re Carlo III, Istruzioni Generali in materia di sanità, in cui si riforma l’organico della deputazione, si ribadiscono in maniera più chiara rispetto al passato i controlli necessari e, soprattutto, si comincia a distinguere il controllo sanitario sul transito via mare da quello via terra.
Bisognerà tuttavia aspettare il XIX secolo per avere le prime istruzioni riservate alla sanità marittima e ben distinte da quelle di polizia urbana. In particolare, nel 1817 il Re Ferdinando I formula un Regio Decreto, trasformato poi in Legge nel 1819, "volendo che in tutta la estensione de' nostri reali dominj, il servizio della pubblica salute sia regolato con principj e motodi uniformi", che istituisce la figura del Supremo Magistrato di salute pubblica ed una Soprintendenza generale, dipendenti dal Ministero dell'Interno; il primo con funzioni deliberative, la seconda con funzioni esecutive. Il Supremo Magistrato di Sanità, è composto da dieci Deputati ed un Segretario per i domini al di qua del Faro e di sei Deputati ed un Segretario per la Sicilia. Compito principale dei Supremi Magistrati è di deliberare su tutte le misure generali che la garanzia della salute pubblica esige nelle diverse circostanze. Uno Statuto penale, successivo, stabilirà un sistema di controllo sull'operato del magistero, che sarà ispezionato periodicamente da un Deputato di nomina regia, l'Ispettore generale.
Ogni Soprintendenza generale è composta dal Soprintendente generale e dal Segretario generale. Loro compito è di rendere esecutive le delibere del Supremo Magistrato e di amministrare i fondi destinati alla sicurezza sanitaria. Affianca il Supremo Magistrato e la Soprintendenza una Facoltà Medica, composta di sei professori di medicina, un professore di chimica ed un architetto, quest'ultimo con il compito di suggerire le misure logistiche necessarie, ad esempio, per fronteggiare eventuali epidemie.
Vengono inoltre istituite, per quanto riguarda la Sanità Marittima, le Deputazioni di Salute, divise in quattro classi in base all'importanza strategica del porto di riferimento (sono di prima classe le Deputazioni di Napoli, Palermo, Messina e Siracusa), tutti rispondono del loro operato al Supremo Magistrato.  Gli Intendenti sono considerati come i Direttori di tutto il servizio sanitario nelle rispettive province, coerentemente con le disposizioni ricevute dal Supremo Magistrato.  Le Deputazioni locali sono gli ultimi agenti di esecuzione per il servizio sanitario marittimo, gli ufficiali comunali per il servizio sanitario interno.
Tra i compiti dei Supremi Magistrati vi è quello di stabilire tutte le misure generali che la garanzia della salute pubblica esige nelle diverse circostanze. Tutta la loro attività è sottoposta al regolamento stilato in un apposito Statuto. (Il lavoro svolto in tali uffici non si è fermato dopo l'Unificazione ed ha permesso di giungere alla realizzazione dell’attuale sistema di controlli alle frontiere da parte delle autorità marittime delle maggiori città di mare dell'Italia unita.) L'importanza della legge è evidente. In un'epoca infatti in cui il concetto di Salute pubblica è ancora acerbo, il re Borbone è il primo nella futura Italia a dar vita ad una legge organica in materia di salute (Carlo Alberto di Savoia ci arriverà solo 12 anni dopo, nel 1831, con la pubblicazione di un Codice di Salute Pubblica).  Al servizio interno della salute pubblica influisce potentemente l'autorità protomedicale, cui spetta aver cura che l'arte salutare sia regolarmente esercitata nei vari suoi rami. L'istituzione del Protomedicato risale al 1530, a capo dell'istituzione fino al 1844 è posto un Protomedico generale del Regno, affiancato dai Professori della Facoltà Medica e da un segretario.
Nelle province, ogni distretto ha un protomedico ed un farmacista, i quali, con funzioni che dipendono dal protomedicato generale, vegliano sulla sanità del proprio distretto.  Il Protomedicato Generale vigilerà affinchè ogni attività connessa alla salvaguardia e tutela della salute sia svolta da personale qualificato ed autorizzato dalla Regia Università.  Nel 1844 Ferdinando II istituisce la Commissione Protomedicale, composta dal medico di Camera di S.M. , che la presiede, da un altro medico, da un chirurgo, due farmacisti ed un professore di storia naturale.  Esso è coadiuvato nell'esercizio delle sue funzioni da un Segretario Generale e da un Collegio di farmacisti, nonchè dai Quarantisti (quaranta speziali scelti fra i migliori della Capitale). In ogni distretto del Regno vi è un Vice-Protomedico ed uno Speziale visitatore, dipendenti sempre dal controllo centrale del Protomedico. In questo modo e grazie anche all'ispezione annuale che si compie per opera della Commisione Protomedicale e dei Vice-protomedici in tutti i comuni del Regno, si vigila sulla condotta di medici, farmacisti, droghieri, speziali, salassatori e di chiunque svolga un'attività connessa alla salute. Di rilievo l'importanza dell'Ufficio Vaccinazione, con sede a Napoli, composto di dieci soci ordinarii e due aggiunti (uno, dunque per ognuno dei 12 distretti della città), il servizio dei quali è giornaliero e gratuito.  La sua fondazione risale al 1802, quando viene istituito da Ferdinando I; se si considera che gli esperimenti del chirurgo Jenner sulla vaccinazione risalgono al 1798, non si può dire si sia giunti in ritardo alla sua realizzazione.
Da segnalare inoltre la presenza di un Giornale Vaccinico, fondato nel 1804 dal dott. Maglietta, il più antico giornale specializzato su un tema di interesse medico come quello della vaccinazione, ricco magazzino di fatti di rilevanza clinica e storica.
Ogni comune ha poi una Giunta Vaccinica, composta dal sindaco, dai parroci e dal medico condotto che, sempre gratuitamente, fornisce il servizio. Il medico esercita esentasse, limitandosi a pagare solo tributi all'atto della concessione dell'esercizio.


Articolo di Matteo De Luca

fonte: www.nazionenapulitana.org

foto: vesuviolive.it


venerdì 6 marzo 2020

Il giacobinismo e la massoneria dietro tutte le trasformazioni storiche




Risultato immagini per foto dei sanfedisti napoletani


 di Patrizia Stabile




"Servirebbe il revisionismo storico anche per riscrivere il decennio post rivoluzione francese, 1789-1799, (giustizia sommaria, beni confiscati, ruberie di stato, chiese distrutte e incendiate, ostie e reliquie profanate, preti imprigionati e massacrati, suore stuprate e uccise, credenti umiliati e trucidati, in nome degli "immortali" principi di Libertè, Egalitè, Fraternitè senza dimenticare il genocidio della Vandea ) per poter comprendere come le spinte giacobine e massoniche abbiano influenzato gli avvenimenti storici successivi e come continuino a condizionare quelli presenti. Il giacobinismo nato dalla volontà di strateghi “illuminati” è in realtà il risultato di un complotto massonico fondato apparentemente sul culto della Patria, ma che, di fatto, spingeva su ideologie come quella del progresso, dell’uguaglianza astratta e dell’individualismo sfociate in una vera e propria dittatura di un’élite che, modernamente, viene chiamata “Nuovo Ordine Mondiale”.
Il giacobinismo ( “Societè des amis de la Constitution”, “Società degli amici della Costituzione”) nacque quindi a Parigi nel 1789 nell’ex convento domenicano di San Giacomo ( di qui il nome) . Finto apportatore di ideali di libertà, fraternità ed uguaglianza ha avuto un gran numero di seguaci in Italia che ricordiamo, per mano di Napoleone (il vero ideatore del vessillo italiano tricolore), si concretizzò nella costituzione delle 4 Repubbliche Sorelle ( Cispadana, Cisalpina, Romana e Partenopea) assoggettate completamente all’esercito francese, che assorbiva terre e denaro da inviare in Francia per risanarne i debiti.
Si assiste, così, come ci ricorda Benedetto Croce in “Storia del Regno di Napoli” ad un radicale cambiamento: dall'attività massonica speculativa si va verso l'attività politica con la trasformazione delle Logge in centri di aggregazione dei Giacobini: «…gli ingegni napoletani… sul cadere del Settecento, primi in Italia, cioè fin dal 1792, … si misero in corrispondenza con le società patriottiche francesi, e i più giovani e ardenti riformarono le loro Logge massoniche in club giacobini...»

Ricordiamo brevemente di come quindi, preparato il terreno, le truppe francesi entrano a Napoli e istituiscono (con la complicità “illuminata” della borghesia e dei nobili napoletani), la Repubblica Napoletana, conosciuta anche come Repubblica Partenopea. Nata per l’idealismo di pochi borghesi e nobili fintamente illuminati ma nella realtà meschini traditori dei Borbone e di tutto il popolo e lontana dai bisogni di quest’ultimo, resiste solo pochi mesi, infatti, il 13 giugno del 1799, grazie alla rivolta che partì dalla Calabria guidata dal Cardinale Ruffo e dai lazzari napoletani (cautamente appoggiati idealmente anche da Ugo Foscolo, nei suoi “Commentari” ) cessò questa nuova e poco amata forma costituzionale che cercò di soppiantare con l’inganno la monarchia dei Borbone. I repubblicani giacobini si resero colpevoli anche dell’uccisione di 60mila sudditi napoletani , vittime mai ricordate da Istituzioni sorde impegnate invece a commemorare le 122 impiccagioni a Napoli, che si susseguirono ininterrottamente da giugno a settembre,più altre centinaia nel resto del Regno, di traditori tra i quali la nobile Pimentel De Fonseca, Francesco Caracciolo, Domenico Cirillo, “vittime” della giustificata ritorsione dei Borbone ( peraltro realmente addolorati anche dal vile tradimento di quelli che consideravano fedeli amici).
Una nota folkloristica e religiosa: Sant’Antonio prese, in quel frangente e solo per un breve periodo (dal 1799 al 1814), il posto di San Gennaro come Patrono nel cuore dei Napoletani accusato di essere "nu Sant Giacubino" in quanto "consentì" il miracolo della liquefazione del sangue anche dinanzi al nemico francese.
Quanto incise invece il giacobinismo durante le fasi del Risorgimento e dopo?


Secondo gli accordi scaturiti dal Congresso di Vienna del 1814 si ripristinò l’Antico Regime cancellando di fatto tutte le conseguenze della Rivoluzione francese e del regime napoleonico, “la Lombardia e l’antica Repubblica di Venezia divennero province dell’Impero asburgico, mentre il Granducato di Toscana e i ducati di Parma e Modena vennero assegnati ai membri della dinastia asburgica. Lo Stato pontificio con le Legazioni fu restituito a papa Pio VII, che rientrò a Roma fra le ovazioni dei popoli della penisola. Nel Mezzogiorno il Regno di Napoli e Sicilia ritornò Ferdinando IV, che assunse il nome di Ferdinando I, re delle Due Sicilie. Sia il Papa, che addirittura concesse all’Austria di mantenere una guarnigione a Ferrara, sia i sovrani dei ducati della Toscana e di Napoli confidavano nella protezione austriaca. Solo il Piemonte, ingranditosi con la Liguria, restò autonomo dalla influenza austriaca, con la solita funzione di Stato Cuscinetto tra la Francia e l’Austria.”
Questa Restaurazione però per colpa anche di pesanti restrizioni imposte dalle vecchie Monarchie non spense le fiammelle repubblicane di un giacobinismo mai sopito che invece, come ricorda Antonio Gramsci dalle sue bellissime lettere dal carcere, fu un modo tutto borghese di fare politica, “sinonimo di politico settario ed elitario in senso deteriore” che introdusse una forte spinta laicista, anticattolica e totalitaria e che innescò, per colpa di quelle ideologie malate, l’insana regola di ordire complotti e strategie subdole per il raggiungimento ad ogni costo del Nuovo Ordine Mondiale. Oggi come allora che in quel contesto storico avevano lo scopo di "liberare" l'Italia dai vecchi Stati feudali e dalla Chiesa cattolica. E così in un apparente stravolgimento di alleanze ed amicizie, con la complicità della massoneria inglese e la neutralità di quella francese, l’Italia fu unita. E sappiamo come. La stessa Massoneria internazionale dirigerà successivamente tanti altri eventi con un’abilissima regia: gli scontri che porteranno alle guerre mondiali e la conseguente sconfitta dei grandi nazionalismi italiano, tedesco e giapponese, e alla conseguente divisione del mondo in due blocchi, decisi, a Yalta nel 1945, da Roosevelt, Churchill e Stalin. I due mondialismi materialisti di un’ipotetica Repubblica Universale si spartivano così il pianeta: da una parte il “capitalismo liberaldemocratico, agnostico e tollerante”, dall'altro il “comunismo ateo e totalitario”. Ci sono sempre i “fratelli massonici” dietro le libertà dei figli dei fiori sessantottini così come la diffusione dell’LSD,una strategia mirata della CIA deliberatamente voluta per creare incapacità di pensiero critico .
Ci sono sempre loro nell' 1989 quando il comunismo crollava e gli Usa, burattini dei sionisti, veri deus ex machina dell’umanità, diventavano i padroni del mondo tanto che Bush nel 1991 affermò che si era giunti all'alba di un "nuovo ordine mondiale”. Ed infatti aveva ragione: siamo giunti quasi alla deriva di una società multietnica e multiculturale che annullerà tutte le culture e le fedi a cominciare dall'Europa, disarmata intellettualmente e in crisi d’identità, interessata dall'invasione di immigrati provenienti dall'Est, dall'Africa, dall'America Latina e dall'Asia, la maggior parte dei quali di fede musulmana “incompatibile con gli ordinamenti civili occidentali che crea incomprensioni e problemi di convivenza, ma che ai progressisti,ai custodi del politically correct e proprietari dei mezzi di comunicazione( che condizionano le menti di improbabili radical-chic o di semplice gente generosa che non ragiona se non con il cuore), la cosa sembra non importare.
John Foster Dulles, presidente della Fondazione Rockefeller tristemente preannunciava, in piena Seconda guerra mondiale: «Un Governo mondiale, la limitazione immediata delle sovranità nazionali, il controllo internazionale di tutti gli eserciti e di tutte le marine, un sistema monetario unico, la libertà di immigrazione nel mondo intero». E la Chiesa che avrebbe potuto essere l’ultimo baluardo di difesa se non si adeguerà a queste strategie mostruose non sarà che una pedina già fortemente compromessa dal di dentro, “corrotta moralmente ed in balia di scandali sessuali, battaglie per la soppressione della veste talare, matrimonio dei preti, revisione dei dogmi in funzione del progresso universale, sconvolgimento della liturgia, l'Eucarestia ridotta a un semplice simbolo della comunione universale ed il vecchio Papato ed il vecchio sacerdozio abdicanti di fronte ai preti dell'avvenire”.
Di certo esisterà una massoneria buona ma con questi presupposti io quando mi troverò al cospetto di simboli giacobini di sicuro cambierò strada. Numerosi e “striscianti” e che veicolano messaggi subliminali soprattutto quando è l’arte il mezzo: berretti frigi,alberi della libertà, la livella che alludeva all'uguaglianza, i fasci consolari dell'autorità romana, il caduceo simbolo della pace conquistata grazie all'abbattimento delle tirannie, la piramide e l’occhio onniveggente, la squadra ed il compasso, l’archipendolo o la cornucopia.

Brutte storie. Alla fine non ci resta che aggrapparci a tutti i valori allora demonizzati e banditi dal NWO (Nuovo Ordine Mondiale): attacchiamoci alla famiglia e ai suoi valori, rispettiamo il nostro passato, riscopriamo le nostre tradizioni,il cibo,gli usi e i costumi della nostra Terra, ancora una volta fondamentali per non perdere l’ identità che siamo riusciti a conservare accogliendo tutti i popoli che hanno avuto bisogno di noi. Ma soprattutto coltiviamo amore.

Foto: www.ecampania.it 


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